mercoledì 20 gennaio 2016

STORIA DÌ UNA TAZZINA DÌ CAFFE’ CHE SALVO’ PASQUALE DALLA PRIGIONE



Aveva bisogno di un buon caffè, gli serviva per schiarirsi le idee. Con questo impellente
pensiero si recò a passo veloce al “Bar dello sport”, lì il caffè era dei migliori. L'aroma si
spandeva fin sul marciapiede, le miscele utilizzate erano quelle “rabbiche”. Il vecchio barman
Don Fefè, lo conosceva da sempre, non aveva bisogno neppure di chiedere e il cameriere
glielo serviva al solito tavolino d'angolo da dove avrebbe potuto ammirare, indisturbato, la
pettoruta cassiera. Lo sapeva, la maledetta, che lui pazziava per quelle “minne”, lei faceva
finta di niente ma i golfini scollati si sprecavano. “'Giorno Pasquale!” “Don Fefè!” toccandosi
con le dita della mano destra un immaginario cappello. Si sedette e subito arrivò l'amato
caffè. Il solo profumo lo ritemprava e le idee andavano sbrogliandosi. Mise un solo
cucchiaino di zucchero, senza girarlo però, gli piaceva gustarlo dopo aver bevuto tutta la
bevanda. Poi, alla fine, avrebbe addolcito il palato. Durante la degustazione non toglieva gli
occhi di dosso alla cassiera. Pasquale non le aveva mai parlato; come lui amava dire:
“Abbastano gli sguardi!”. Quel giorno però era preoccupato, da qualche tempo aveva
programmato, al Cimitero monumentale di Scicato un colpo sinsazziunale, lo aveva chiamato
“piano A”. Aveva previsto tutto: amici fidati, mezzi, orari e refurtiva con conseguente
rivendita! Il colpo era tutto nella sua testa. Qualche dubbio ancora sui complici, ma la tazzina
di caffè l’avrebbe risolto. Accompagnando la madre vedova al cimitero, in pratica ogni santo
sabato, aveva notato che c'era materiale da rubare: bronzo, lampadine, fili di rame, fiori,
anche quelli finti, in sostanza eterni! Il colpo sarebbe avvenuto all'imbrunire. Nel muro di
cinta del cimitero vi era una breccia, vi sarebbero penetrati ed, eludendo il custode, si
sarebbero divisi il cimitero in quattro zone in modo da operare in modo oculato e matematico.
Tutto il materiale lo avrebbero trasportato su un furgone “preso a prestito” e poi, con calma,
avrebbero iniziato la vendita. Sì, il caffè lo aveva rincuorato, uno ultimo sguardo goloso al
davanzale della cassiera e poi poteva accompagnare la madre al cimitero per un nuovo
sopralluogo. Erano le dieci del mattino e... “Pasquale a mamma, to patri ndi 'spetta”. Giunti
dinanzi alla lapide, la vedova iniziò la litania sistemando i fiori freschi. “Hai visto che c'è
pure Pasquale? Pari ieri che muristi, no trent'anni. E rivolta al figlio, vadda pari ch'avissi
voglia di parrari 'nta foto...”. Pasquale nel frattempo contava il numero di telecamere di
controllo, valutandone la portata.“Pasquale che fai nenti cià ddiri a ‘to patri?”. La voce lo
riscosse, si avvicinò alla foto, non si era mai accorto dello sguardo accusatore paterno.
Sentiva il bisogno di un caffè, attese che la madre facesse il giro tra le tombe, almeno dieci...
Era come se fosse nel suo naturale habitat, sistemava vasi, puliva lapidi, salutava, sorrideva,
piangeva, mandava baci neanche fosse sul red carpet... “Pasquale figghio mio ti ricordi a 'za
Lucia? Miii, non teni mimoria!”. Finalmente la visita finì e Pasquale poté riaccompagnare la
madre a casa. “Ricordati all'una si mancia. Ti priparu pasta chi sardi o preferisci a pasta
'ncasciata?”. “Mamma basta na cosa semplice”. “Ma chi ti senti mali? Nun mi fari scantari!”
e, dopo avergli toccato la fronte, scese finalmente dall'auto. Pasquale si recò da Don Fefè, si
sedette al tavolino e, con la tazzina in mano che lo inebriava e calmava, osservò, come un
gatto col topo, la cassiera. Sorseggiando gli venne in mente l'immagine della vedova del conte
Mazzaculla, che proprio quella mattina aveva notato al cimitero. Era agghindata d’oro come
una Madonna durante la processione; a lei dovevano rapinare! Il colpo avrebbe fruttato tanto
denaro e i morti li avrebbero lasciati in pace! “Don Fefè il vostro caffè è sidro, nettare degli
dei, schiarisce i pensieri”. Disse Pasquale uscendo. Ora era necessario contattare i complici e
mettere in atto il colpo. Pasquale voleva incontrare Mico, suo compagno di scuola che da
quando aveva sposato una straniera era sempre “muru muru co' spitali”. Inoltre aveva un
pezzo di terreno con annessa baracca appena fuori Scicato; la refurtiva poteva essere nascosta
senza problemi. Poi lo zio Cosimo, forte come un toro e, fortuna delle fortune, era pure muto;
così non avrebbe potuto raccontare a nessuno del colpo. Per ultimo Turi che aveva
un'autorimessa; avrebbero così utilizzato il furgone di qualche suo cliente, sostituendone la
targa con una recuperata in qualche discarica abbandonata. Quattro persone bastavano
sicuramente. Non restava che incontrarli.

                                                 I CONTATTI
Si accorse che era già l'una e sua madre non poteva aspettare; l'avrebbe trovata disperata, col
fazzoletto in mano ad asciugarsi naso e occhi. Si affrettò e, pur non avendo fame, “pulizziò”
tutto il piatto fondo di spaghetti alle sarde; fece pure la scarpetta con un bel pezzo di pane di
grano duro. La madre non contenta gli parò dinanzi un piatto con le melanzane ripiene
all'agrodolce. “Mamma le mangio stasera!” disse Pasquale. “Lo sapevo che ti sentivi male,
non hai mangiato nenti; ora chiamo u dutturi.” “Per farti contenta ne mangio una sola!”. E il
povero Pasquale si fece forza ad ingoiarne una. Una nausea assurda lo colse alla gola, una
sola cosa lo avrebbe potuto salvare: un buon caffè! Sarebbe andato al bar e dopo avrebbe fatto
una camminata sul lungomare di Scicato. Così fece. Uscì; era una giornata di sole primaverile
e, data l'ora, le quattordici e trenta, non c'era gente. Dopo aver ritemprato corpo e occhi al bar,
Pasquale iniziò la camminata che doveva alleggerirlo di un pasto le cui porzioni erano degne
di un refettorio di trenta affamati camionisti. Camminava e guardava il mare calmo e azzurro,
respirava a pieni polmoni. Si sedette su di una panchina rivolta alla spiaggia, chiuse gli occhi
e... “buongiorno Pasquale, anche tu ami il mare”. Pasquale aprì un occhio, poi l'altro no...era
la vedova del conte. ”Questo è il destino!” pensò. Si alzò subito, accennò un baciamano.
“Contessa come state?”. “Settati pure, lascia stare i salamelecchi, che fai qui?” chiese la
donna. “Nenti, mi sto riposando e poi il mare oggi è bello assai!”. “Ragione hai, io esco a
quest'ora quando non c'è nissuno. Lo sai le malelingue!” Sospirò. “Ma lei è ancora giovane e
anche piacente!”. “Chiamami Maria, ti prego!” e, guardandolo fisso negli occhi, “ora devo
andare, arriva gente! Buongiorno”. “Buongiorno donna Maria”. Mai si sarebbe immaginato
della tristezza della contessa, abitava in una bella villa, i soldi non le mancavano, era
rispettata da tutti, eppure... Era giunto il momento di parlare con gli “amici”, il colpo era
possibile! Telefonò a Mico. “Sono Pasquale ti devo parlare. Tra mezz'ora sul lungomare di
Scicato”. Mico, che era di poche parole, fu puntualissimo. Pasquale neppure lo aveva
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riconosciuto. Era smagrito, pallido, mal vestito, triste; dov'era finito il compagno di scuola e
di scorribande allegro e caciarone? “Compagno mio, ma che ti succede?” gli chiese
abbracciandolo. “La porcata più grande della mia vita, sposare quella fimminazza!”. “Mi
dispiace assai ma c'è un modo per uscirne. Ho pianificato tutto: rapiniamo la contessa Maria
Mazzaculla, facciamo i soldi senza rischiare.”. Mico lo guardò “Ma si paccio? Di carcere mi
basta quello a casa!”. “Donna Maria ha un debole per me, organizzo tutto io!”. “Fammici
pinsari, ci vediamo tra tre giorni, allo svincolo dell'autostrada!”. “Va bene facciamo alle tre.”
Si salutarono e Pasquale andò da zio Cosimo. Gli aprì lo zio, era ingrassato dall’ ultima volta,
il volto rubicondo e sembrava pure alticcio! Aprì le braccia al nipote e quasi lo stritolò.
Pasquale, liberatosi dalle possenti braccia, cercò dove sedersi nel bailamme di quella casa.
Disordine e sporcizia dappertutto. Trovò una sedia appena più pulita; si sedette proprio “in
pizzo” e iniziò “Zio ascolta attentamente ho un piano per una rapina! No, non ti scantari,
niente armi, niente sangu. Rapiniamo donna Maria. Ha oro e soldi, che ne pensi? Fammi
segno di sì o no”. Lo zio Cosimo prese un pizzino e scrisse “sì pacciu?”. “No, io frequento
donna Maria. Una sera, quando lo dico io, entrate in casa e il gioco è fatto!”. “A pinsari!”
Scrisse lo zio. “Va bene, passo da te fra quattro giorni”. Lo salutò e andò da Turi. Per non
insospettire nessuno gli portò la macchina all'autorimessa.“Ciao Turi, ho la macchina che fa
un romore strano, te lo fai un giro con me?”. Quando furono alla periferia di Scicato gli
raccontò del piano. “So benissimo che hai problemi di soldi, non fare finta di niente. Ti offro
un affare sicuro: dobbiamo rapinare un tale pieno di soldi, non ci sono pericoli!”. “Ma tu si
proprio sicuro?”. “Secondo te voglio mettermi nei guai, così mia madre muore?”. “Di dinari
ne ho bisogno assai, fammi sapere che ti serve e quando”. Si lasciarono così. Adesso doveva
affascinare la contessa Maria; gli era sembrata interessata, anche vogliosa di un uomo e lui,
modestamente, da buttare non era: occhi neri come la pece, capelli ondulati, naso greco e
bocca carnosa. Il fisico asciutto e scattante! Guardandosi allo specchio, compiaciuto pensò “si
pò fari!” Dopo un’ultima taliata allo specchio, andò a letto. Il mattino seguente iniziò con la
solita chiamata. “Pasquale, a mamma, la colazione è pronta!”, Si stiracchiò come un gatto al
sole, si alzò e assaporò fresche briosce, marmellata e frutta. Non volle il caffè, quello solo da
Fefè si poteva gustare! Il pensiero era rivolto però al “piano B”. Doveva conoscere le
abitudini della vedova, indossò maglioncino di cotone bianco, jeans larghi e snikers; si
profumò, stava per uscire quando… “Figghiu quantu si beddu! Unni vai, non che mi lassi sula
pi' 'na puttana?”. Era la madre che vedeva nell’uscita del figlio un potenziale abbandono.
“No, stai tranquilla”. Pasquale andò dritto dritto al bar di Fefè. Si sedette al solito posto e
dopo pochi minuti il caffè era pronto. La cassiera era più bella che mai, il seno in evidenza e
lo sguardo languido. Lui sorseggiava e la guardava fisso, ma lei niente, contava i soldi, si
aggiustava il golfino, leggeva il giornale se non c'erano clienti. A Pasquale venne il dubbio
che forse non le piaceva ma, si disse, era impossibile quando passava lui si giravano anche le
pietre. Pagò quanto dovuto e, dopo aver lanciato uno sguardo di fuoco alla donna, uscì dal bar
per appostarsi vicino alla villa della contessa. “Pasqua' che ci fai ammucciato'” disse una
voce, si girò. “Ciao Giacomì. No, sto 'mpuiato all'abbero, devo togliermi a scarpa pe 'na
petra” rispose il ragazzo. “Si ‘na petra...”. “Pasqua' hai abbisogno di quarcosa?” fece un'altra
voce. “Ciao Fottunato. No grazie, ero solo stanco mi 'mpuiai all'abbero”. “Possibile che non
si può stare in pace, tutti ora passano?” pensò Pasquale. Decise di andar via, non era giornata
oppure era il destino, meglio ritornare al “piano A” e rubare nel cimitero? Ci voleva un buon
caffè! Don Fefè lo accolse come il solito, appena lo vide preparò l'aromatica soluzione;
Pasquale si sedette al tavolino e il cameriere glielo servì. Ma qualcosa di nuovo c'era, la
cassiera era diversa. “Don Fefè ci sono cambiamenti?”. “Rosa, la cassiera è appena andata
via; si marita le ha dato il cambio Concetta!” Ma come, il desiderio dei suoi sogni proibiti si
sposava? E con chi? “Pasqua' tu la taliavi ma mai nenti le dicesti! E che volevi che restava
zitella aspettando attia?!” disse Don Fefè. Mali si sentia Pasquale, lui che credeva di essere
unico, irresistibile, era stato scalzato via, sostituito. E ora? La nuova cassiera era piatta. Prima
tutto quel ben di dio e ora la carestia. Bevve il caffè ustionandosi, neppure lo zucchero aveva
messo, stava troppo male. Solo una cosa gli era rimasto: il colpo A o B che fosse! Andò a
casa. “Mamma stanotte sognai a papà, sento che ci devo andare a truvarlo!”. “Certo figghio
mio, anche se non è sabatu piaciri mi fa! Se vuoi, puoi portaci un bel cero longo, longo!”.
“No mamma, voglio solo parlarci, come fai tu!” rispose rabbrividendo al solo pensiero di un
cero votivo come quello per Santa Rosalia. Al cimitero, dopo aver comprato i fiori… “Vedi,
to' figghio ti pensa sempre, Vero a mamma? Rivolto a Pasquale, ora parraci pure”. “No
mamma il cuore ci parla, preferisco stare muto, poi voglio far visita a tutti i morti che
canoscevo!”. Pasquale in lontananza aveva visto donna Maria. Così, dopo una breve pausa di
riflessione con mammà che lo guardava con occhi comprensivi, principiò ad avvicinarsi con
noncuranza alla contessa.“Donna Maria, anche lei qua!”. “Ci vengo tutti i giorni, alla stessa
ora, la mattina, ne sento la nicissità!” rispose la donna con voce affranta e gli occhi di fuoco
represso. “Avete bisogno di quarcosa, non so prendere l'acqua per i fiori, pulire la lapide in
alto, non sono lavori da donna!”. “Pasqua' non mi dire così”. Poi sottovoce “ti aspetto alle tre
sul lungomare!”. E sparì tra le tombe. Pasquale quasi non credeva alle proprie orecchie, suo
padre lo aveva guidato, il furto lo avrebbe fatto ma da donna Maria!

                                               L' APPUNTAMENTO
Dopo il solito giro fra i tumuli e l'interrogatorio... “Pasquale a mamma, guarda quella foto; ti
ricordi chi è?”. “No mamma!”. “Ma come, quand'eri picciriddu ti cattava le caramelle! È don
Nino. E quella fimmina, muriu giuvani, sulu settantenni; è a zia Tina! Miii, ma ce l'aiu addiri
o dutturi mi ti ordina 'u fosforu, non teni mimoria!”. Come Dio volle Pasquale la riportò a
casa e, con la promessa di essere puntuale per il pranzo, andò al bar. Il caffè ci voleva! “Don
Fefè un doppio caffè. Vengo dal cimitero e mi sento il sangue di ghiaccio come un morto!”.
Sollecito arrivò il caffè, ma aveva un gusto diverso. Forse era per colpa di “minni sicchi”. Sì,
la nuova cassiera; a Pasquale mancava proprio la Rosa la pettoruta. “Quasi quasi glielo dico a
Don Fefè di mandarla via!”. Meno male che aveva quell'appuntamento. Il pensiero della
donna lo solleticava; chissà cosa voleva da lui. Forse lo sapeva, quello che tutte le donne
vogliono! Con un sogghigno terminò il caffè, si alzò, pagò senza degnare di uno sguardo “la
meschina” e tornò a casa: il pranzo lo attendeva. Al solito fu luculliano, degno di un
reggimento per quantità, di un re per qualità. Lui però mangiava svogliatamente; erano troppi
i “pinzeri” che aveva. Comunque fece onore alle pietanze preparate. D'altronde se non lo
avesse fatto il dottore sarebbe stato chiamato subito. Guardava continuamente l'orologio in
maniera furtiva; la madre era come l'FBI: voleva sapere tutto. Alle tre meno dieci sgattaiolò
fuori casa con un “Mamma nesciu”. E lei di rimando “Cettu u cafè di Don Fefè t'aspetta non
posso preparartelo io?”. Neppure rispose, salì in auto e sgommò verso la marina. Lei era lì,
sedeva languidamente sulla solita panchina, il volto rivolto al sole, le labbra leggermente
dischiuse, le gambe accavallate e gli occhiali da sole che le celavano gran parte del volto. La
posa era d'attesa. Pasquale l'ammirò per un po'. Era davvero appetibile, peccato per l'età, vent'
anni più di lui, ma doveva sacrificarsi il colpo. “S'ha da fare” pensò. “Pasquà, da quanto mi
stai a guardare? Settati vicino a me! Lo vedi quanto è bello il mare?”. “Donna Maria voi siete
più bella assai!” rispose quasi convinto il ragazzo. “Pasquà tu mi piaci. Da un anno nessuno
mi sta accanto. Io non resisto. Stasera alle dieci t'aspetto a casa mia. Prendi questa chiave, è
del cancelletto sul retro della casa. T'aspetto” si alzò e in un attimo era già andata via. A
Pasquale quella chiave bruciava tra le mani, la strinse nel pugno e si avviò da Don Fefè; solo
lì avrebbe trovato pace. La sera alla dieci puntuale aprì il cancelletto con la chiave, entrò nel
giardino quando un cane gli si avventò alla caviglia. Più tentava di allontanarlo più quello
faceva baccano, ringhiava, strattonava il calzone, si allontanava abbaiando per tornare subito
all'attacco. Fu tale la confusione che si accese una luce ad una finestra e si affacciò Don Luigi
con in mano la lupara e iniziò ad urlare “Donna Maria, contessa, chiamassi i carabbineri c'è
un ladro nel giardino, appena lo vedo gli sparo!”. Donna Maria per un po' fece finta di niente
ma dato che il vicino non la smetteva, dovette aprire la porta sul balcone con un “Grazie Don
Luigi se non fosse per voi chissà quanti malintenzionati. Ho chiamato il 118, Fifì vieni da
mamma che ti do l'osso” rivolta al cagnolino. Pasquale intanto con la caviglia insanguinata e
dolorante, il pantalone strappato, era riuscito a salire su di un albero di limoni con Fifì che
ringhiava di sotto, le spine del limone su tutto il corpo e una gran paura addosso di essere
impallinato. Sapeva che Don Luigi aveva il grilletto facile, era già stato arrestato un paio di
volte per “eccesso di lupara”. Appena Donna Maria riuscì a far rientrare il cane in casa, dopo
che Don Luigi aveva lasciato la finestra per aspettare i carabbineri all'angolo della strada,
scese dall'albero e, come un “curnutu mazziato”, si chiuse alle spalle il cancelletto, prese e
l'auto e tornò a casa. Il più piano possibile entrò, si spogliò, si tolse le spine con le pinzette
delle sopracciglia della madre e, con le lacrime agli occhi per il dolore, si coricò. “Possibile
che mancu di nascosto so entrare nella casa di una fimmina che m'aspetta?”. Con questo
cocente dubbio di addormentò! L'indomani mattina, quando una lama di luce lo svegliò, si
alzò in preda ai dolori muscolari. Si guardò allo specchio, la sera precedente aveva lasciato il
segno: una lunga striscia di sangue sulla guancia, per non parlare poi delle gambe e delle
braccia, era come se avesse lottato contro gli artigli di un gatto. Fece la doccia, si coprì il
graffio con il fard della madre, sembrava avvinazzato, si vestì e, cosa nuova, uscì di casa
senza far colazione, lasciando la madre ad arrovellarsi sul malessere che aveva colpito il
figlio. Pasquale andò subito al bar, il caffè era questione molto importante. Pagò senza
degnare di uno sguardo “la meschina” e si recò alla casa della contessa, doveva assolutamente
chiarire. Suonò e la donna lo fece entrare. C'era anche Fifì, il maledetto lo riconobbe subito e
si slanciò contro le parti “basse” di Pasquale. “Mi vuoi rovinare bastardo?” gridò l'uomo
tirandogli un poderoso calcio proteggendosi, allo stesso tempo, il “capitale”. Fifì capì
l'antifona e, con la coda tra le zampe, guaendo il proprio dolore si rifugiò sotto il divano e da
lì non si mosse più. “Mi dispiace assai Pasquale”, disse la contessa dopo averlo fatto
accomodare, non potevo immaginare. Lo vuoi un caffè, te lo faccio con le mie manine”. Non
aspettò neppure la risposta e corse in cucina tra uno svolazzare di volants e il ticchettio delle
scarpe. Pasquale si guardava attorno, la casa era bella e grande, di buon gusto; si vedeva che
c'erano i soldi. La donna non era il suo tipo ma poteva anche sacrificarsi per qualche giorno.
Fece ritorno la contessa con un vassoio d'argento, che Pasquale apprezzò; un po' meno il
caffè, donna Maria non era cosa! “Caro Pasquale, se ci tieni possiamo frequentarci, ma tu lo
vuoi veramente?”. Chiese la donna. “Sicuro sono” rispose Pasquale senza riuscire a guardarla
negli occhi. La donna gli si fece vicina e stringendolo a forza tra le braccia gli offrì la bocca.
“Ma come, neanche ci conosciamo e vuoi baciarmi?” chiese Pasquale improvvisamente
impaurito. Poi, ricordandosi che l'uomo è uomo sempre, nella buona e nella cattiva sorte, la
baciò con trasporto, palpandola tutta. Donna Maria, che era “affamata assai”, gli saltò
addosso. Salvò Pasquale lo squillo del cellulare. Si alzò, si ricompose. “Scusa Maria è mia
madre; se non rispondo mi dà per disperso e avvisa le forze dell'ordine”. Uscì in cortile e
rispose “si ora vegnu. Si spettami...No...tutto a posto”. Rientrando avvisò la donna “Maria ci
vediamo stasera, devo andare!” e uscì dalla casa. Non era la madre ma Mico; aveva
dimenticato l’appuntamento. Telefonò alla madre. Avrebbe pranzato fuori casa; alle sue
proteste rispose che tutto quello che aveva preparato lo avrebbe consumato a cena, a costo di
scoppiare. Andò subito da zio Cosimo che, appena lo vide, a segni gli chiese degli altri; gli
rispose che stavano arrivando, stringendo il pugno fece comprendere che i tempi erano
maturi. Passarono pochi minuti e giunsero i due uomini; erano stati così veloci che Pasquale
dedusse che avevano proprio bisogno di soldi. “Amici, il colpo si farà, devo fare ancora un
sopralluogo nella casa della contessa. Lei ormai ha fiducia in me, devo cuocerla ben bene e
dopo saremo pronti! Quando vi chiamo non bisogna perdere tempo. Tu, Turi, cerca il furgone
e una targa falsa; tu, zio Cosimo, bevi di meno e dimagrisci qualche grammo in previsione del
furto, così ti muovi meglio; tu, Mico, ce l'hai ancora il terreno con la baracca? Si? Bene,
ricordati di trovarci dentro un buon nascondiglio per la refurtiva. Quando sono pronto vi
avverto!”. Così dicendo sciolse la seduta e ognuno tornò ai propri affari. Pasquale, che si
sentiva come Garibaldi prima dell'impresa dei Mille, decise che il caffè ci voleva. Si recò da
Don Fefè che, appena lo vide, preparò l'aromatica bevanda. Pasquale seduto al tavolino
osservava “a meschina”. “Quella non è donna è troppo piatta, mi fa passare la voglia del
caffè”. E si girò con tutta la sedia dalla parte opposta. Chiudendo gli occhi riuscì a creare
l'atmosfera giusta per berlo. Dopo decise di andare sul lungomare e...Maria c'era! Le si
sedette accanto. “Pasqua' mi dispiace per come è andata; che fai stasera ci vieni a casa mia?”.
“E Fifì?”. “Ti giuro che lo chiudo in gabinetto!”. “Vengo alle otto, no anzi alle nove; prima
devo cenare sennò mia madre mi fa il ricovero coatto”. “Pasquà t'aspetto”. Gli disse
stringendogli forte la mano e ficcandogli un' unghia nel palmo, lasciandogli un segno di
fuoco. Pasquale si trattenne dall'urlare dal dolore e con una smorfia si allontanò di corsa.
Appena girato l'angolo, non visto, iniziò a leccarsi la ferita per fermare il sangue ed
imprecando “ma guarda sta p... malan...du duluri, ma quella è capace di tagliarmele!!”.
Quando si riprese e il sangue fu fermato, andò con la macchina nel paese di Luvirato, dove
sapeva esserci un negozio di cinesi. Aveva bisogno di comprare tute nere per il furto. Era
sicuro che gli altri tre erano capaci di presentarsi con vestiti eleganti, con tanto di camicia e
cravatta, visto che facevano “visita” in casa della contessa. “Buongiorno mi servono vestiti
scuri” disse. Una cinesina piccola e gentile lo condusse dove vi erano vestiti in pura plastica
scura; un fiammifero acceso e l'effetto torcia era assicurato.“No, no, maglione nero e
pantaloni aderenti pure neri”. La cinesina gli mostrò maglioni a collo alto e maniche lunghe e
pantacollant neri. Potevano andare bene ma il problema c'era: che taglia prendere per lo zio
Cosimo con quella stazza? Poi il caldo già si faceva sentire, ancora qualche giorno e la
temperatura sarebbe salita. Con quegli abiti avrebbero sudato come muli in salita. Comunque
non c'era altro; scelse le taglie dalla XS per il povero Turi alla XXXL per lo zio. Pagò, uscì e
si recò al negozio di articoli sportivi e comprò tre berretti di lana neri, di comprare
passamontagna non aveva avuto il coraggio. Per la strada, da un marocchino, acquistò tre paia
di occhiali neri. C'era tutto, però un dubbio gli venne: avrebbero indossato ciò che aveva
comprato? Guardando l'orologio si accorse che era tardi, la madre lo attendeva. Nascose gli
acquisti nel bagagliaio e velocemente si avviò verso casa, fece una doccia rilassante e si
sedette a tavola. La madre aveva preparato di tutto e di più: antipasto di pescespada con
melanzane bollite, pasta alla norma, involtini di pescespada arrostito e, tanto per gradire,
peperoni ripieni fritti. Insomma “'na cosa leggere leggera”. Pasquale era spaventato. Vedeva
la morte con gli occhi, era un'impresa titanica poter mangiare tutto e poi restare vivo.
Cominciò ad assaggiare, un po' di uno e un po' dell'altro, quando un boato gli esplose vicino
all'orecchio. “Chi fai non manci? Cucinai tuttu u iornu pi ttia e tu ingrato chi fai? Acedduzzu!
Mancia o moru!”. E così, costretto da sensi di colpa degni di uno tsunami, Pasquale mangiò e
mangiò e all'appuntamento con Maria non si presentò. Non riuscì neppure a telefonare a
causa delle nausee che ad intermittenza lo sovrastavano. Andò direttamente a letto, solo,
nauseabondo e frustrato, con pensieri di omicidio nei confronti della madre. A mezzanotte lo
riscosse il cellulare: era Maria. “Che fai? Mi vuoi far morire di desiderio? Fai il prezioso?”.
“No, è che io sto morendo!”. Pasquale chiuse la comunicazione.

                                                               IL PIANO B
L'indomani, subito dopo colazione ed il caffè da Don Fefè, Pasquale, anche se non si sentiva
granché bene, andò a casa della contessa. Lei lo accolse freddamente; si era sentita snobbata
la sera prima. Lui cercò di spiegarle il malessere che lo aveva colpito dopo la cena. Lei
piccata rispose “ma quanti anni hai? Vivi ancora con tua madre che ti tratta come un
picciriddu, crisci figghiu e deciditi!”. “Non sono un bambino!” rispose Pasquale e la prese tra
le braccia e la baciò con violenza. Maria, che era proprio da tanto che lo desiderava, si staccò
e lo trascinò, letteralmente, in camera. Lo gettò sul talamo e iniziò furiosamente a spogliarlo.
Pasquale, che non aveva mai subito un assalto di tal genere, a poco a poco andava perdendo
di passione, guardava con occhi sbarrati la furia che aveva dinanzi. Ma doveva farsi forza, il
colpo l'attendeva. Chiuse gli occhi e si diede da fare. “Quanto t'ho desiderato Pasquale mio!”.
Anche Pasquale sospirava, ma per altri motivi; rivedeva gli amplessi passati quando era
l'amore giovanile a farla da padrona. Ad un tratto si accorse che qualcuno gli leccava la pianta
del piede: era Fifì! “Che schifo” pensò, gli tirò un calcio e quello andò via guaendo. Pasquale
si alzò dal letto, si affacciò alla finestra e valutò la distanza dal giardino, cosa positiva alle
finestre non c'erano sbarre. “Dov’è il bagno?”. Maria languidamente indicandoglielo con la
mano. Anche questo aveva una finestra abbastanza grande, prese nota Pasquale, i complici
potevano entrare da lì. Inoltre era laterale rispetto alla strada principale. Tornato dalla donna
“Maria ora devo andare, ci vediamo stasera”. Lei non rispose; mugolò un sì, l'amore l'aveva
stancata. Si rivestì, si pettinò con le dita della mano, uscì dalla stanza. Nel corridoio incontrò
la cameriera che lo guardò con un sorrisino che gli diede proprio fastidio. Doveva ricordarsi
di annotare quando aveva la giornata libera. Uscito di casa vide il giardiniere che stava
pulendo le aiuole. “E sono due” pensò Pasquale, e, come se non bastasse, c'era pure Don
Luigi affacciato alla finestra. “Buongiorno, ma io ti ho già visto?” chiese l'uomo. “Ma quando
mai, rispose Pasquale, mi scambia con qualcuno”. E di corsa, col volto basso tornò a casa.
“Sento odore di p...”. Lo accolse la madre. “Ma quando mai! Sempre na cosa pensi. Piuttosto
oggi mangio picca picca, non voglio sentirmi male. Hai capito, vero?”. “Ma che ti pigghia,
figlio mio, mai m'hai parratu accussì!”. Così dicendo si chiuse nella propria camera con gran
sbattere di porta. Pasquale si sedette a tavola, non mangiò molto, piluccò un po' qua e un po'
là; si sentiva bene, finalmente poteva fare ciò che voleva. Terminato tutto andò al bar di Don
Fefè. Si sedette e subito arrivò l'amato caffè; ormai aveva un sapore diverso, non più di
femmina dalla curve golose ma di adrenalina da super colpo. Pasquale aveva preso in mano
un taccuino in cui annotava tutto l'occorrente. Aveva preso nota degli abiti e accanto aveva
segnato “OK”, la posizione della camera e bagno e un altro “OK”; ora mancavano i giorni
liberi degli inservienti e l'ubicazione dei gioielli. Finito il caffè, si stiracchiò, posò il libricino
e si diresse verso casa, doveva riposare prima dell'incontro di fuoco. Pasquale iniziò così a
frequentare regolarmente la contessa Maria Mazzaculla. Osservava attentamente abitudini e
situazioni; aveva scoperto che il giorno libero della servitù era il venerdì; aveva inoltre fatto
uno schizzo della casa con tutte le porte e le finestre e un pomeriggio, riunitosi con gli
“amici”, aveva pianificato il furto. Sarebbe stato di venerdì, proprio mentre lui intratteneva la
contessa'era. Un unico problema: non aveva scoperto con esattezza dove Maria teneva i
gioielli ma aveva escogitato un piano infallibile. Con la scusa di portarla al teatro le avrebbe
chiesto di essere elegantissima, per cui sarebbe stata costretta ad ingioiellarsi e il gioco era
fatto!. “Maria stasera ti porto a teatro. Danno “Il Rigoletto”. Devi essere elegantissima, ho qui
i biglietti” disse una fatidica sera. “Lo sapevo che eri l'uomo giusto per me! Aiutami a
vestirmi, poi stanotte, quando torniamo, sarai tu a togliermeli. Scegli tu i gioielli che più si
adattano, te ne prego!”. A Pasquale non pareva vero. Si avvicinò a Maria e carezzandole
svogliatamente il collo, le consigliò l'abito e poi finalmente scoprì dove teneva l'oro. Nella
biblioteca del conte, dietro un quadro si celava la cassaforte; insomma un nascondiglio
banale. Maria digitò una parola segreta che più ovvia non poteva essere: “Fifì”. Aprì la
cassaforte. “Amore non è meglio che mi allontani, questi sono segreti tuoi” disse Pasquale.
“Ma quali segreti, a Pasquà, io non ciò più nenti di nenti. Mio marito si giocava tutto a poker;
m'ha lasciato solo un braccialetto, tutto il resto è falso! “Vendo oro” mi conosce benissimo.
Solo la casa non è ipotecata ed è con la pensione che campo!” terminò Maria. A Pasquale
cedettero le gambe, ebbe un capogiro, si appoggiò alla parete e rivide i propri sacrifici fatti
per nulla. “Amore, disse con voce roca, non ti preoccupare contano i sentimenti”. Già ma
quali? Intanto quella sera dovette portarla al teatro e sorbirsi l'opera lirica che odiava. La
riportò a casa e, con la scusa di un forte mal di testa, ritornò alla propria dimora dove l'accolse
un materno “i p... fannu fari tardi, mentre a mamma mori di prioccupazioni!”. Le fu risposto
un “Affanc...!” poderoso. Pasquale si girava e rigirava nel letto; doveva dire ai complici che il
furto cambiava dal “piano B” al “piano A”, dalla casa di Maria al cimitero!

                                                                 IL PIANO A
Pasquale l'indomani mattina si alzò di buon ora. Subito dopo la colazione e il caffè da Don
Fefè si recò a casa di zio Cosimo. Bussò varie volte prima che gli aprisse un assonnato zio,
sempre più grasso e sempre più trasandato. Lo fece accomodare ma, osservandosi attorno,
Pasquale decise che era meglio restare in piedi anche perché la sporcizia era totale.
Guardando negli occhi l'uomo gli disse “Zio il furto si fa al cimitero, la contessa è tutto fumo
e piccioli nenti, la carità gliela devo fare io. Ti ho portato i vestiti scuri, così di sera non ti
vedono, ora te li provi. Io intanto telefono a Turi e Mico, così vengono e decidiamo”. Gli
amici arrivarono di lì a poco, proprio mentre lo zio Cosimo si mostrava in “tutto il suo
splendore” in pantacollant e maglione nero, corredato da cappello e occhiali. Al vederlo
scoppiarono a ridere. Effettivamente il pantalone non riusciva a coprirgli né sedere né pancia;
il maglione a collo alto lo strozzava ed era tanto simile ad un folle scappato da un manicomio.
Quando riuscirono a smettere, cosa non proprio facile, decisero che all'abbigliamento avrebbe
provveduto da solo; l'importante era che fosse scuro. Gli altri due invece, una volta
provatolo, convennero che era adatto all’impresa. Pasquale, liberando il tavolo dal ciarpame
che c'era, prospettò il piano aiutandosi con un disegnino semplice: in sostanza un rettangolo,
alcuni quadrati e una linea. L’appuntamento era fissato per tre giorni dopo, alle otto di sera.
Sarebbero arrivati separatamente. Mico avrebbe posteggiato il furgone sul lato del muro dove
c'era la breccia. Pasquale avrebbe razziato il lato nord-est mentre a Turi sarebbe toccato
quello nord-ovest, il versante sud-est sarebbe stato preda di Mico con zio Cosimo ad
imperversare in quello sud-ovest. Alle dieci e trenta in punto il primo ritorno al furgone
lasciato aperto; quindi nuovo raid fino alle dodici e poi via; ognuno nella propria casa, mentre
Mico avrebbe nascosto il furgone nel terreno di proprietà. Dopo una settimana, refurtiva da
dividere e collocare nel nascondiglio. Contatto con gli acquirenti dopo quindici giorni.
Sembrava tutto a posto. Per primo andò via Pasquale che si recò subito al bar da Don Fefè,
aveva bisogno di riprendersi con un buon caffè, la situazione era adrenalinica. Mico tornò a
casa dove l'accolse un'imbufalita moglie, quindi Turi che cercò in una discarica di auto rubate
la targa per il furgone. Zio Cosimo, rimasto solo, guardò il pantacollant, lo girò e rigirò tra le
mani con un “che minchia copre...”. L o gettò in giardino dove un cane iniziò a strapparlo coi
denti.

                                                              IL PIANO C
Era il giorno del furto. Da qualche tempo Pasquale non andava da Maria adducendo
l'influenza, non usciva e la madre felice lo nutriva a più non posso. Ormai era tutto pronto,
questa volta il pantacollant l'avrebbe dovuto mettere lui. Sembrava un mimo pronto per lo
spettacolo, mancavano solo i guanti bianchi. Gli si accese una lampadina, aveva pensato a
tutto ma non ai guanti per evitare di lasciare le impronte! Uscì di corsa e andò al
supermercato vicino, acquistando quattro paia di guanti in plastica colorata. Ora si sentiva
tranquillo. Decise di andare al “Bar dello sport”, sentiva necessità di un buon caffè. Subito
Don Fefè gli portò l'amata bevanda, questa volta però gli si avvicinò e gli disse “Pasquà, che
c’hai? Non mi sembri tranquillo, allora è vero che prepari un colpo!”. A Pasquale il caffè
andò di traverso e iniziò a tossire con gli occhi fuori dalla orbite. “Ma possibile che in questo
paese di m... sanno tutto di tutti prima ancora che accada qualcosa?” pensò, era quindi
necessario cambiare piano. “Ma che dici Fefè, ti pare possibile che faccia qualcosa che possa
far stare male mia madre?”. “Hai raggione, tu si un bravu figghiu, scusami Pasquà. A gente è
mala assai! Se permetti il caffè te lo offro io, voglio farmi perdonare!”. E gli diede una pacca
sulla spalla. Grande caffè lo aveva salvato da pericolo sicuro. Doveva chiamare gli amici e far
saltare il piano. Fuori dal bar telefonò a Turi e Mico, annullando tutto. Andò di persona da zio
Cosimo. Lo trovò nel cortile. “Zio Cosimo non se ne fa nenti. Meglio poveri che in gabbia”.
L'uomo l'abbracciò, anche lui concordava. Tornato a casa, mise i guanti di plastica nella
cucina, li avrebbe utilizzati la madre, si cambiò e andò da Maria. Il cane Fifì, memore dei
calci presi, appena lo vide si nascose in un cespuglio; la contessa gli aprì il portone, aveva gli
occhi cerchiati, sembrava avesse pianto.“Entra Pasquale!” disse con voce stanca. Non era la
donna aggressiva che aveva conosciuto precedentemente, sembrava sofferta, più quieta,
soprattutto diversa. Le prese le mani “Maria che hai? Sei malata?”. “Si malata d'amore per
te!” terminò singhiozzando. Pasquale la prese tra le braccia, forse non era la donna ideale,
non era giovanissima, però sicuramente lo amava, fece due conti: non l'avrebbe sposata,
altrimenti avrebbe perso la pensione del marito, ma da lei affitto non ne doveva pagare,
poteva continuare ad essere viziato e coccolato, dalle mani soffocanti della madre sarebbe
passato alle cure appassionate di Maria, in fondo gli conveniva. L’affare della sua vita
sarebbe stato il “piano C”. Non lo aveva previsto, non era male e soprattutto era sicuro!
Finalmente sereno si lasciò andare sul petto di Maria!

                                                                                FINE

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